L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anticipa le Sezioni Unite: niente cumulo tra risarcimento e indennizzo

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anticipa le Sezioni Unite: niente cumulo tra risarcimento e indennizzo
04 Aprile 2018: L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anticipa le Sezioni Unite: niente cumulo tra risarcimento e indennizzo 04 Aprile 2018

IL CASO. Tizio aveva proposto ricorso innanzi al T.A.R. per la Calabria, sede di Catanzaro, esponendo di avere svolto, per oltre un decennio, funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura della Repubblica di Paola e, in ragione di ciò, di essere “stato costretto a trattenersi quotidianamente presso gli uffici della Procura”, ubicati in un edificio i cui “muri esterni erano costituiti da lastre piane in cemento-amianto”, che gli avevano cagionato un carcinoma renale. Per tale motivo, otteneva dal Comitato di Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura il “riconoscimento di dipendenza di infermità da causa di servizio” e, dunque, “la misura massima prevista dalle vigenti disposizioni di legge ai fini della concessione dell’equo indennizzo”. Aveva, quindi, chiesto al T.A.R. di condannare il Ministero della giustizia “al risarcimento del danno non patrimoniale alla salute subito a seguito dell’esposizione all’amianto” e quantificato in una determinata somma, dalla quale “non avrebbe dovuto essere detratto l’importo già percepito a titolo di equo indennizzo, che costituirebbe uno ‘strumento a contenuto patrimoniale di natura previdenziale’, mentre il risarcimento sarebbe ‘finalizzato a ripristinare integralmente il danno subito, in tutte le sue qualificazioni’”. Il T.A.R. per la Calabria aveva accolto il ricorso, riconoscendo a favore di Tizio una somma a titolo di risarcimento del danno, ritenendo che “come da costante orientamento della giurisprudenza, le prestazioni indennitarie riconosciute dalla legge in favore dei pubblici dipendenti affetti da patologie contratte per causa di servizio ovvero per le vittime del dovere concorrono con il diritto al risarcimento del danno da responsabilità contrattuale o extracontrattuale dell’amministrazione in ordine al medesimo pregiudizio all’integrità psicofisica patita dal dipendente”, e cioè che “l’importo di quelle prestazioni non può … venire detratto da quanto spettante per il diverso titolo risarcitorio, dovendosi escludere che ricorra un’ipotesi di compensatio lucri cum damno”. Ed aveva, infatti, rilevato che “l’illecito mentre costituisce fatto genetico e costitutivo della pretesa al risarcimento, rappresenta una mera occasione rispetto alla spettanza dell’indennità che sorge per il solo fatto che la lesione sia avvenuta nell’espletamento di un servizio di istituto del soggetto, indipendentemente dalla responsabilità civile dell’amministrazione datrice di lavoro e in misura autonoma dall’effettiva entità del pregiudizio subito dall’interessato”. Avvero la decisione del T.A.R. aveva proposto appello il Ministero della giustizia, basandolo sulla “violazione e falsa applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, desumibile dall’art. 1223 c.c.”, perché “la necessità dello scomputo dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno di quanto corrisposto all’appellato proprio in ragione della riconosciuta dipendenza dal servizio della patologia contratta per effetto dell’esposizione all’amianto è imposta dall’esigenza di evitare l’ingiustificato arricchimento determinato dal porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della giustizia) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo”. La Quarta Sezione del Consiglio di Stato, “ritenuto che, in materia, sia riscontrabile un contrasto interpretativo nell’ambito della giurisprudenza della Corte di cassazione”, aveva deferito il ricorso all’esame dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, “per la decisione del seguente punto di diritto (e conseguentemente per la eventuale definizione dell’intera controversia): se sia possibile o meno sottrarre dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di carattere indennitario versati da assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie previdenziali”.   LA DECISIONE. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1/2018, ha anzitutto precisato che, onde evitare sovrapposizioni con le “questioni che … sono state rimesse all’esame delle Sezioni unite della Cassazione”, avrebbe limitato il suo esame alla “valenza del principio della cd. compensatio lucri cum damno … nella fase di determinazione del danno cagionato dal datore di lavoro pubblico ad un proprio dipendente”, e dunque al caso di specie, in cui sussistevano “una sola parte danneggiata”, “un’unica condotta responsabile  [l’esposizione all’amianto], un solo soggetto obbligato [Ministero della giustizia] e titoli differenti delle obbligazioni”. Quanto a questi ultimi, ha ritenuto che, nel caso specifico, “il primo titolo dell’obbligazione risarcitoria è regolato dall’art. 2087 cod. civ., … il quale prevede che ‘l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’, ciò che determina una sua responsabilità di “natura contrattuale”, che riviene “la propria fonte nel contratto di lavoro che, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ., è integrato dalla norma di legge, sopra riportata, che prevede doveri di prestazione finalizzati ad assicurare la tutela della salute del lavoratore”. Il “titolo della seconda obbligazione è regolato dall’art. 68 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) [e successive modifiche], il quale prevede(va) che «per le infermità riconosciute dipendenti da causa di servizio è a carico dell’amministrazione la spesa per la corresponsione di un equo indennizzo per la perdita dell’integrità fisica eventualmente subita dall’impiegato»”. Da tali premesse in merito “ai titoli e ai soggetti delle obbligazioni che vengono in rilievo”, l’Adunanza Plenaria è giunta a ritenere che “le somme corrisposte non possono essere cumulate”. Ciò trova fondamento anzitutto “sul piano della struttura degli illeciti”, perché “la presenza di una condotta unica responsabile che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito, aventi entrambe finalità compensativa del medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto determina la nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente unitari che giustifica l’attribuzione di una, altrettanto unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare la sfera personale della parte lesa”. Inoltre, “sul piano della funzione degli illeciti, il riconoscimento del cumulo implicherebbe l’attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva. L’esistenza, infatti, di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe per esso l’obbligo di corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo. Tale risultato, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellato, non può ammettersi in quanto manca una espressa previsione legislativa che contempli un illecito punitivo e dunque che autorizzi un rimedio sovracompensativo e non sarebbe nemmeno configurabile una duplice causa dell’attribuzione patrimoniale”. Il mancato cumulo tra indennità e risarcimento trova, altresì, conferma “sia in fattispecie legalmente previste sia in talune fattispecie cosi come interpretate dalla Corte di Cassazione”. Quanto alle prime, l’Adunanza Plenaria fa riferimento all’“art. 2-bis della legge n. 241 del 1990”, che, “in caso di comportamento illecito dell’amministrazione conseguente alla violazione del termine di conclusione del procedimento, dispone che l’istante ha diritto sia, sussistendone i presupposti, al risarcimento del danno sia ad un indennizzo «per il mero ritardo», aggiungendo, sul presupposto della medesima finalità della misura riparatoria contemplata, che «in tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento»”. Quanto alle seconde, richiama l’orientamento della Corte di Cassazione, in base al quale “l’indennizzo corrisposto al danneggiatoda complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni” ai sensi della L. 210/1992 “deve essere integralmente scomputato dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento «posto che in caso contrario la vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto (il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto (trasfusione di sangue o somministrazione» (Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 584; nello stesso senso, tra le altre, Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2014, n. 26152)”. Inoltre, l’Adunanza Plenaria rileva come nemmeno le “argomentazioni difensive della parte appellata” smentiscano la non cumulabilità tra indennizzo e risarcimento. In relazione alla “espressa previsione da parte della normativa di settore sull’equo indennizzo dei fattori che sono idonei a ridurre l’indennità da corrispondere e che non ricomprenderebbero la somma corrisposta a titolo di risarcimento del danno (art. 50 del d.p.r. n. 686 del 1957)”, l’Adunanza Plenaria ha replicato come “non si possa ritenere che essi siano gli unici rilevanti. Ciò in quanto, alla luce dei principi generali che regolano la materia, sarebbe stata necessaria una esplicita previsione idonea ad assegnare carattere di esclusività ai divieti di cumulo”. In relazione alla “impossibilità di applicare la regola della compensatio al danno non patrimoniale per la sua natura che escluderebbe la stessa astratta possibilità di una riparazione, in base a “criteri convenzionali”, dell’interesse personale leso”, ha invece replicato come “anche tale voce di danno abbia una finalità compensativa e debbano essere previste modalità risarcitorie idonee ad evitare ingiustificati arricchimenti. La “non patrimonialità” del bene leso e soprattutto delle conseguenze derivanti dal fatto lesivo non esclude la possibilità che si proceda, in via equitativa e con l’ausilio di meccanismi tabellari da calare sempre nell’ambito di processi personalizzati che valorizzino le peculiarietà del caso concreto, ad una determinazione quantitativa degli effetti economici negativi subiti dal soggetto leso. In altri termini, la particolare natura del pregiudizio alla persona non esclude che si provveda ad una sua quantificazione.In tale ottica, se si ammettesse la possibilità di cumulare somme dovute anche a titolo diverso la conseguenza sarebbe quella di assegnare una valenza punitiva al danno risarcibile in contrasto con la più volte enunciata regola della finalità compensativa in assenza di una espressa previsione legislativa”. Tenuto conto di tutto quanto sopra, l’Adunanza Plenaria ha concluso per l’accoglimento dell’appello, risolvendo la controversia “mediante l’applicazione della regola del divieto di cumulo”, ossia detraendo “dall’ammontare della somma risarcitoria” la somma “già corrisposta dall’amministrazione a titolo di indennizzo”. Ed ha, così, formulato il seguente principio di diritto “limitatamente alla questione relativa al cumulo tra risarcimento e indennità dovute da enti pubblici”: “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario”.   L’Adunanza Plenaria ha tenuto a precisare che il principio di diritto elaborato valga “limitatamente alla questione relativa al cumulo tra risarcimento e indennità dovute da enti pubblici e non anche, perché non rilevante, da assicuratori privati o sociali”, questione, quest’ultima, rimessa all’esame delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

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